Giovan Francesco Màia Materdona nacque il 4 settembre 1590 a Mesagne, nella penisola salentina, vicino a Brindisi; i suoi genitori erano Pomponio Maia e Ippolita Materdona, entrambi di famiglia nobile. Giovan Francesco fu destinato alla professione giuridica e si laureò a Napoli nei primi anni del XVII secolo. Sappiamo che viaggiò molto: soggiornò a Napoli, a Firenze, nelle Marche e in alcune città dell’Abruzzo (Chieti, L’Aquila, Vasto); nel marzo 1628 era a Bologna e successivamente lo ritroviamo a Milano, Venezia e Roma. Giovan Francesco fu anche socio di accademie: nel 1611 fu ammesso all’Accademia degli Oziosi e successivamente alla romana Accademia degli Umoristi. Poco dopo la morte di Giambattista Marino (1625), alla cui commemorazione fu presente, Giovan Francesco Maia Materdona in sogno ebbe una visione di quel poeta cinto dalle fiamme infernali, che lo esortava a non seguire il suo esempio e a volgersi alla religione. Profondamente colpito, Materdona prese gli ordini sacri: fu ordinato sacerdote nel 1638. Nei suoi ultimi anni fece perdere ogni traccia di sé. Giovan Francesco Maia Materdona morì a Roma, intorno al 1650.
Oltre alle poesie, delle quali ci occuperemo più avanti, Materdona scrisse due opere in prosa. La prima di esse è il prontuario di lettere di auguri intitolato Lettere di buone feste ; la seconda è il trattato edificante intitolato L’utile spavento del peccatore e dedicato a San Giovanni Battista. Nelle prime novecentotrenta pagine del trattato l’autore esamina una gran mole di peccati e le corrispondenti azioni utili a redimersi. Qual è lo spavento utile alla redenzione? Per Materdona, è lo spavento ragionato, non il timore del dolore fisico e neppure quello indotto dalla capacità del predicatore di impressionare gli ascoltatori.
Fra le liriche di Giovan Francesco Maia Materdona abbiamo scelto di occuparci del sonetto Ad una zanzara:
Animato rumor, tromba vagante,
che solo per ferir talor ti posi,
turbamento de l’ombre e de’ riposi,
fremito alato e mormorio volante;
per ciel notturno animaletto errante,
pon freno ai tuoi susurri aspri e noiosi;
invan ti sforzi ch’io non riposi:
basta a non riposar l’esser amante.
Vattene a chi non ama, a chi mi sprezza
vattene; e incontro a lei quanto più sai
desta il suono, arma gli aghi, usa fierezza.
D’aver punta vantar sì ti potrai
colei ch’Amor con sua dorata frezza
pungere ed impiagar non poté mai.
Su questo sonetto proponiamo delle considerazioni di Mario Pintacuda: <Il poeta crea un parallelismo fra le pene d’amore e le pene determinate dai morsi della zanzara: egli soffre già abbastanza per amore, per cui le punture dell’insetto sono a suo giudizio superflue: “basta a non riposar l’esser amante”>. (Cfr. v. 8).
La “frezza” del verso 13 è semplicemente la freccia.
Michel Camillo-reporter cooperator
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