Le invasioni barbariche del professor Giulio Pavignano

Tutti, a scuola, ci siamo sentiti dire che l’Impero Romano è crollato nel V secolo a causa dei “barbari”: un insieme di tribù e popoli rozzi e feroci, il cui stesso nome collettivo evoca inferiorità culturale (“barbaro”, infatti, è con voce onomatopeica “colui che non sa la vera lingua”, perché emette solo dei ba-ba-ba incomprensibili ai raffinati conoscitori del greco e del latino). E nella nostra memoria si è quindi sedimentato il mito di una cultura travolta da masse di guerrieri incolti, che hanno distrutto tutto o quasi quel che secoli di ordinato e illuminato governo romano avevano creato sulle sponde del Mediterraneo.



In questa ricostruzione c’è ben poco di vero, per non dire nulla. Intanto, l’Impero era già in crisi per conto suo: da almeno due secoli, una progressiva perdita di slancio civile e una preoccupante carenza di valori religiosi e morali condivisi avevano indebolito gli eserciti e fiaccato le classi dirigenti. Per convincersene, è sufficiente constatare che i “barbari” premevano già da prima sui confini imperiali, ma in precedenza le truppe romane non avevano avuto soverchi problemi a farvi fronte.

Inoltre, la descrizione dei barbari come dei primitivi capaci solo di far guerra ed estranei alla civiltà appare del tutto infondata. Alamanni, Svevi, Burgundi, Vandali, Franchi, Visigoti, Unni -tanto per citare i gruppi principali- avevano una civiltà diversa, forgiata nei secoli di dura vita nelle steppe e negli altipiani dell’Asia centrale da cui in gran parte provenivano. Uno stile di vita dagli evidenti contrasti con il modello greco-romano: mentre i romani erano stanziali, vivevano di agricoltura e commerci, avevano un’alimentazione basata sui cereali, il vino, l’olio e il pesce, vestivano abiti tessuti e lavorati, costruivano città, si regolavano con leggi scritte gestite da uno Stato, i barbari erano nomadi, vivevano di razzia, caccia e in qualche caso pastorizia, mangiavano essenzialmente carne e bevevano birra, vestivano abiti spesso ricavati dalle pelli, erano abili lavoratori dei metalli ma non costruivano insediamenti urbani e basavano i propri rapporti su leggi orali che davano ai clan un ruolo centrale. L’incontro e lo scontro tra due mondi così diversi, da un certo punto in poi uniti dalla comune adesione al cristianesimo, originerà nel continente europeo quel periodo che noi chiamiamo medioevo.

Come giudicare, allora, le “invasioni barbariche”? Molto semplicemente come la manifestazione di uno dei fenomeni più antichi e tipici della storia umana: le migrazioni! Esaurite le risorse di un territorio, oppure spinti alle spalle da altri popoli, i barbari si sono incamminati verso l’Europa, alla ricerca di nuove terre in cui insediarsi. Non si tratta di un’eccezione, ma della norma: da quando l’umanità ha visto la luce, in quell’Africa centro-orientale che è stata la sua culla, siamo una specie in perenne cammino sulle strade del mondo. E sarebbe bene ricordarselo, proprio in un periodo in cui il migrante viene tratteggiato come un invasore ostile, o almeno un approfittatore che senza diritto vorrebbe sedersi alle tavole altrui: quel migrante è uno di noi, non solo perché ha la nostra stessa dignità, ma perché compie un’azione che ha segnato la storia umana fin dalla notte dei tempi.

Giulio Pavignano-contg.news

Pubblicato da Emanuele Dondolin

Direttore Responsabile ed Editoriale di Contg.News Iscritto all'Ordine dei Giornalisti Pubblici

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