Se ci chiedessero chi sono stati i più grandi navigatori della storia, tutti risponderemmo citando i vari Colombo, Magellano, Cook. E certo in queste parole ci sarebbe del vero. Se però qualcuno ci chiedesse cosa sappiamo dei lapita e delle loro gesta marinare, lo guarderemmo senz’altro a bocca spalancata, ignorando come dietro a questo nome- che gli archeologi hanno assegnato ad una cultura della Nuova Caledonia, territorio francese del sud del Pacifico- si celi un popolo di arditi navigatori in grado di raggiungere alcuni dei principali arcipelaghi dell’immenso oceano Pacifico.
Siamo all’incirca attorno al 1500 a.Cr. I lapita sono un insieme di gruppi e tribù affini, la cui esistenza è legata al mare sotto tutti i punti di vista: costruiscono case sulle rive, fabbricano armi e gioielli; sanno coltivare la terra, ma si nutrono per lo più di ostriche, vongole, tartarughe, anguille e perfino squali. All’epoca vivono in Nuova Guinea, ma presto cominciano a viaggiare, spingendosi sempre più a est: raggiungono l’arcipelago che oggi ha il nome di isole Bismark, e lo superano arrivando all’arcipelago di Vanuatu; intorno al 1000 pare che giungano alle Figi, e in seguito ancora oltre, fino alle Samoa e alle isole Tonga. All’inizio pare passassero di isola in isola, ma col tempo divennero assai meno guardinghi, affrontando estesi tragitti in mare aperto. Gli scopi di tale incredibile e coraggiosa espansione, che li porta a misurarsi con il più sconfinato degli oceani, non sono ben chiari: un’ipotesi è ovviamente legata ai commerci, ma si suppone anche che gli scambi attestati dagli archeologi di ossidiana, asce e altri oggetti si possano spiegare con ragioni di natura rituale.
Così com’era iniziata, intorno al Mille a. Cr. la serie dei viaggi si interruppe: forse erano appagati delle mete già raggiunte, o forse le loro imbarcazioni non erano adatte a tragitti ancora più lunghi che li avrebbero condotti verso le Hawaii. Essi si servivano, secondo alcune incisioni rupestri, di barche provviste di bilanciere e vele triangolari; strutture leggere e manovrabili, antenate di quelle piroghe ben più grandi che diventeranno tipiche degli isolani del Pacifico. E si noti che tutti o quasi questi viaggi vengono fatti controvento: per quanto a noi appaia strano, era l’unica scelta che offrisse una ragionevole prospettiva di ritorno, in un quadrante di venti che soffiano abbastanza regolarmente da sud-est.
I lapita e i loro sodali non occupano grande spazio nei testi di storia. Perciò, quando pensiamo all’arditezza di Colombo che sfida l’oceano con le famose caravelle (anche se almeno la Santa Maria era una nao, più solida e grossa), rivolgiamo un pensiero anche a quelle genti dell’Asia estrema che su veri gusci di noce si lanciarono verso l’ignoto, spinti da quella sete di conoscenza che caratterizza l’essere umano di ogni luogo e di ogni tempo.
Redazione-c.s
