Immagine con la foto dell’autore dell’articolo: Luca Roverselli
La ricerca di un luogo nel quale lasciare che la mente possa vagare libera, cercando l’unità di se stessa, ha da sempre spinto l’uomo ad esplorare terre ignote e lontane, a volte estremamente diverse dal suo noto e in grado perciò di affascinarlo e di generare in lui le domande fondamentali sullo scopo della nostra esistenza. Questo avvenne fino dal tempo degli antichi esploratori greci che
scoprirono le terre del circolo polare Artico, guidati da Pitea nel IV Secolo a.C., le cui imbarcazioni si ritrovarono a navigare in una strana regione “sulla quale il Sole non tramontava mai”. Fino da allora il potere generato dalla visione di un mondo sconosciuto è capace di stupire e di risvegliare le riflessioni più profonde sulla natura del mondo e di noi stessi. Dai tempi di Pitea sono trascorsi tanti secoli e via via che le tecnologie a disposizione dell’avventura umana sono progredite, la curiosità che è propria della nostra specie ci ha spinti sempre più lontano. Nella prima metà del XX Secolo molti intrepidi esploratori si sono immersi negli abissi marini, fino a raggiungere i fondali delle più profonde fosse oceaniche. Poi, nella seconda metà del secolo, è iniziata la più grande avventura dell’uomo. L’esplorazione è stata in grado, per la prima volta nella storia, di rivolgere la sua attenzione all’immenso cosmo che si estende oltre i confini del nostro pianeta. Inizia così
l’avventura che si propone di spingere il nostro sguardo nelle profondità dello spazio. Gli storici attribuiscono giustamente un’enorme importanza alle esplorazioni e infatti una delle date
fondamentali per individuare la nascita del Rinascimento europeo è proprio quella dello sbarco di Cristoforo Colombo nelle Americhe, avvenuto ufficialmente nel 1492. Quelle piccole navi in legno e il coraggio dei loro equipaggi hanno fatto un passo fondamentale per il progresso di tutta
l’umanità. Allo stesso modo esiste una data precisa per le nuove caravelle che hanno permesso di vedere per la prima volta dall’esterno il globo terracqueo sul quale viviamo. Il 4 ottobre del 1957 fu
lanciato dai Sovietici il primo oggetto artificiale capace di raggiungere l’orbita terrestre: lo Sputnik 1. La sua orbita era stata studiata affinché il satellite sorvolasse l’intera fascia abitata del nostro pianeta (cintura ecumenica)

Il dispositivo era dotato di quattro antenne radio che trasmettevano
sequenze di impulsi che erano ricevuti a terra anche da molti radioamatori. Negli Stati Uniti il grande successo della missione dello Sputnik determinò un fenomeno sociale e politico davvero
particolare che fu chiamato “crisi dello Sputnik”. Secondo molti osservatori il lancio orbitale russo aveva minato la presunta superiorità missilistica e tecnologica americana e come reazione iniziò il periodo che fu noto come “corsa allo spazio”. L’impatto emotivo che quell’impresa fu in grado di produrre, influì in larga misura anche nella vita di tutti i giorni. Proprio in quel periodo il design delle auto e degli elettrodomestici risentono profondamente dell’influenza della neonata esplorazione spaziale. Il disegno delle vetture inizia a presentare motivi estetici che ricordano gli ugelli dei razzi e sulle code delle auto nascono vistose pinne, simili alle alette dei missili, che alle fine degli anni Cinquanta raggiungeranno l’altezza di un metro e venti. In risposta ai sovietici, iprimi tentativi a “stelle e strisce” di raggiungere lo spazio dovettero servirsi degli strumenti disponibili in quel momento. Il 1° febbraio 1958 gli Stati Uniti lanciarono il loro primo congegno
artificiale in orbita. Era l’Explorer 1, dotato di un contatore Geiger in grado di rilevare i raggi cosmici e di tre sensori di temperatura.

Ma il momento più atteso era quello nel quale un uomo sarebbe stato in grado di vedere per la prima volta il nostro pianeta dall’esterno. Ancora una volta il
primato è sovietico. Il 12 aprile 1961 inizia il progetto Vostok e la navicella Vostok 1 porta in orbita Jurij Gagarin. L’allora ventisettenne pilota collaudatore dell’aviazione militare resta in orbita per
poco più di un’era e mezza per poi rientrare a terra con successo. Pochi mesi dopo gli Stati Uniti inviano in orbita, a bordo della prima navicella del Programma Mercury, il pilota collaudatore Alan Shepard, il 5 maggio del 1961. Tutti gli anni Sessanta son un susseguirsi frenetico di botte e risposte
tra Sovietici e Statunitensi. L’ambiente nel quale si giocava la sfida per la conquista della nuova frontiera dell’esplorazione era però una terra ignota e piena di pericoli.

Alla metà del decennio la sicurezza raggiunta nei lanci spaziali permise di sperimentare manovre sempre più ardite e durante lo sviluppo del Programma Gemini furono tentati i primi rendezvous – aggancio tra navicelle – nello spazio. Ma un fenomeno era allora totalmente sconosciuto. Durante il primo tentativo di connettere due veicoli spaziali con equipaggio – in gergo: presidiati – tutto procedette per il meglio e gli astronauti che occupavano le due navicelle festeggiarono lo storico evento, ma al momento di sganciarsi, qualcosa non funzionava. I corpi dei due veicoli spaziali erano rimasti inspiegabilmente connessi e ogni tentativo di liberarli dal mortale abbraccio era risultato vano. In un atto di disperazione, utilizzando la spinta dei razzi di manovra – in gergo: vernieri – i piloti riuscirono a separare i due mezzi, potendo così rientrare incolumi dalla missione. In seguito si è scoperto che, in assenza di una pressione, i metalli tendono a saldarsi spontaneamente tra di loro. Quando si esplora un ambiente completamente nuovo ed ignoto, i nostri calcoli e le nostre conoscenze a volte non
sono sufficienti. Dopo alcune esperienze di questo genere, coloro che si occupano della pianificazione delle missioni spaziali si muovono con estrema cautela e valutano attentamente ogni possibile inconveniente che si possa presentare in quelle condizioni. La medicina spaziale, che dispone oggi di molti dati relativi alle risposte che ha il fisico umano dopo lunghe permanenze nello spazio, conosce molti dei rischi che comportano i viaggi nello spazio.

Oltre al noto indebolimento muscolare e scheletrico, la permanenza prolungata in assenza si peso, quando ci si trova in orbita in caduta libera attorno alla Terra, provoca infatti l’insorgere di gravi tumori ossei.

Per pensare di intraprendere un viaggio con equipaggio anche solo fino Marte, il più vicino e il più “ospitale” pianeta del Sistema Solare, si dovrebbe perciò disporre di un veicolo in grado di garantire una forma di gravità artificiale, prodotta ponendo in rotazione gli ambienti abitabili, sulle cui pareti interne si percepirebbe, per effetto dell’inerzia centrifuga, la confortevole e salutare accelerazione di 1 G. A questo punto la salute dell’equipaggio sarebbe garantita. Esistono però altri problemi per la realizzazione di una nave spaziale in grado di portare l’uomo sul pineta rosso.

Si sente parlare di ipotesi che sostengono di poter giungere fino ad esplorare Marte con un equipaggio ridotto e con l’utilizzo di razzi tradizionali a combustione chimica.

Ciò è invero assolutamente impossibile. Se dobbiamo calcolare il carburante necessario per andare in automobile da Torino a Milano, la questione risulta piuttosto facile. Sappiamo che la distanza è di circa 140 chilometri e anche se
possediamo un’auto un po’ brillante, calcoliamo che ci bastino una decina di litri di benzina. Ora, se ci chiediamo a quanto ammonti il carburante necessario anche per il ritorno, diremo senza esitare che sono venti litri. Questo è vero perché i dieci litri di benzina costituiscono una frazione minima
rispetto alla massa dell’intero veicolo. Per i razzi le cose stanno diversamente. La massa del carburante, per un razzo chimico, costituisce infatti la frazione maggiore della sua massa complessiva. Il carico utile, per raggiungere la destinazione, ha bisogno di molte volte la sua massa in carburante, al fine di accelerarlo ad una velocità idonea a liberarlo dal pozzo gravimetrico
terrestre e potere allontanarsi nello spazio. La velocità di fuga dal nostro pianeta è infatti di 11,2 chilometri al secondo: oltre sei volte maggiore di quella dei proiettili più veloci utilizzati per alimentare i cannoni dei carri armati! Poi, una volta raggiunto Marte, si deve rallentare per entrare
in orbita attorno al pianeta, altrimenti, con quella velocità, ci si perderebbe nello spazio. Lì infatti non ci sono attriti e nulla rallenterà naturalmente il nostro veicolo, che proseguirebbe all’infinito.
Per rallentare bisogna usare i razzi e consumare carburante: non c’è altra via. Ma allora, per fare entrare il veicolo spaziale in orbita attorno a Marte, dovremo poter contare su di una quantità di carburante pari a quella che ci aveva sospinti fuori dall’orbita terrestre. Ma quel carburante non
l’abbiamo e la nostra nave spaziale non dispone certo di artigli in grado di fermare la sua sorsa. Se invece vogliamo arrivare in vicinanza di Marte con quella quantità di carburante, allora al lancio
dall’orbita terrestre dobbiamo calcolare come carico utile la massa del veicolo più quella del carburante necessario per rallentarlo a destinazione e allora il carburante che dovremo imbarcare
sarà il quadrato e non il doppio. Infatti, se il carburante necessario per un’accelerazione è nove volte la massa del veicolo, se dobbiamo compiere due accelerazioni, per partire e per rallentare all’arrivo, sarà necessario 9 x 9 volte quel carburante, quindi oltre ottanta volte la massa del veicolo che ospita l’equipaggio. Un viaggio spaziale con l’uso di questa tecnologia è pertanto assolutamente non praticabile. E abbiamo analizzato solo la necessità di combustibile per partire e arrivare da orbita a orbita. In una missione reale però una parte dell’equipaggio dovrebbe poi scendere sulla superficie del pianeta a bordo di un modulo di dimensioni ridotte ma pur sempre assetato di carburante. Poiquegli esploratori devono risalire in orbita, a bordo della nave madre per il rientro sulla Terra.

Quindi la nave spaziale che parte dall’orbita terrestre dovrebbe trasportare anche quel modulo con il
quadrato del carburante necessario per due accelerazioni: dall’orbita di Marte fino alla superficie e viceversa. Ricordiamo che il pianeta rosso ha un’atmosfera che è circa un centesimo di quella terrestre, perciò non si può nemmeno contare sull’efficienza di un’ala o di un paracadute per la fase
di discesa. E non abbiamo nemmeno accennato a problemi ancora più gravi, come la ridondanza (più apparecchi e sistemi per ogni funzione) negli equipaggiamenti e la necessità di
un’indipendenza totale per tutta la durata del viaggio, che sarebbe lungo oltre un paio di anni. Come sempre, quando ci allontaniamo dagli ambiento noti, le cose si complicano e la tecnica di
interpolare dal noto inizia a mostrare la sua debolezza. Ma allora è possibile per l’uomo visitare i mondi che si trovano oltre i confini del suo pianeta nativo? Vedremo nel prossimo appuntamento
con l’avventura dell’esplorazione quali sono le ipotesi per superare i confini della nostra Terra.
Luca Roverselli-Redazione
