#Aiconfinidelmondo#L’Antartide

articolo a cura del nostro storico Luca Roverselli

Il continente all’estremo Sud del nostro pianeta è un territorio immenso che si estende su di una superficie di 14. 000.000 di chilometri quadrati ed è ricoperto per più del 97% da ghiacci perenni. La massa dei suoi ghiacciai ha uno spessore medio di oltre un chilometro e mezzo e le terre sottostanti non sono mai state toccate da un essere umano. Nelle profondità della sua coltre bianca esiste il ghiaccio più antico del mondo. La spedizione “Beyond Epica Oldest Ice” condotta dal professor Carlo Barbante, direttore dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle Ricerche (CNR) e docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, si è spinta nelle profondità del manto glaciale antartico a circa 1.000 chilometri dalla costa estraendo una carota – cilindro di ghiaccio – a 130 metri di profondità. L’intento è di perforare l’intero spessore della calotta risalendo all’indietro nel tempo di un milione e mezzo di anni. I ricercatori caroteranno quindi la calotta antartica fino ad arrivare a prelevare campioni delle rocce sulle quali si appoggia il ghiacciaio. La ricerca permetterà in tal modo di compiere un viaggio nel tempo per stabilire quali fossero le caratteristiche dell’atmosfera terrestre all’epoca in cui i suoi componenti sono rimasti intrappolati all’interno di quella antichissima cristallizzazione glaciale. Per ora le sonde si sono spinte all’indietro nel tempo di circa 3.000 anni, perforando i primi 130 metri di calotta e il termine dei lavori è previsto tra circa tre anni.

Ernest Henry Shackleton primo uomo a raggiungere il sud magnetico nel 1909.

L’esistenza di un continente australe è stata ipotizzata fino dall’antichità, quasi come se la presenza di quelle terre fosse ancestralmente nota anche se mai osservata. Il primo avvistamento certo del continente antartico è in effetti molto recente e si deve ad una spedizione condotta dall’ammiraglio russo Michail Petrovic Lazarev che esplorò i mari dell’estremo Sud nel secondo decennio del Novecento e avvistò la massa continentale antartica il 27 gennaio del 1820. Al centro di quella immensa terra si trova il Polo Sud e da allora l’idea di raggiungere il punto più estremo del pianeta nel quale tutte le direzioni conducono a Nord è divenuto il pensiero fisso di ogni esploratore. Ma la storia del grande continente australe è molto più antica e sprofonda da tempi immemorabili nel mito di una “Terra Australis Incognita”. Già nel XVIII Secolo il capitano James Cook si spinse alla ricerca di quel mitico territorio navigando per ben tre anni a quelle latitudini, dal 1772 al 1775, certo dell’esistenza di una grande terra emersa che circondava il polo. Come fu chiaro solo in seguito, Cook giunse a meno di 130 chilometri dalle coste dell’Antartide ma il clima estremo di quei luoghi e le caratteristiche degli equipaggiamenti di cui disponeva a quel tempo lo costrinsero ad invertire la rotta prima di poter avvistare la costa continentale. Solo nei primi anni del XX Secolo si riaccese la gara per raggiungere l’ultimo continente della Terra ancora inesplorato. Nel 1911 due spedizioni si contesero la conquista del Polo, una guidata dall’esploratore britannico Robert Falcon Scott e l’altra condotta dal norvegese Roald Amundsen. Entrambe le spedizioni si misero in marcia nell’ottobre di quell’anno, periodo in cui il circolo polare australe inizia ad emergere dalla sua lunga notte e le temperature tendono ad alzarsi. L’esperienza di Amundsen nel clima gelido della sua terra natale si rivelò determinante per le sorti della sua spedizione. L’esploratore norvegese si era infatti messo in viaggio con sci e cani da slitta mentre il suo competitore inglese si serviva di un certo numero di pony della Manciuria e di alcune motoslitte che si resero ben presto inutilizzabili a causa del basso numero di ottano del carburante di cui disponeva Scott.

il capitano James Cock
gli uomini della sfortunata spedizione di Robert Scott.

Quegli uomini, con enormi sforzi, riuscirono comunque a raggiungere il Polo, ma scoprirono che la spedizione norvegese li aveva preceduti di alcune settimane. Sulla via del rientro poi Scott e i suoi compagni, Edward Wilson, Edgar Evans, Lawrence Oates e il tenente Henry Bowers perirono a causa delle condizioni meteo estreme che incontrarono nella via che li doveva ricondurre al Campo Base. Oltre che disporre di un’oganizzazione sicuramente meno efficiente di quella dei norvegesi, Scott fu in effetti molto sfortunato. Le temperature estreme che incontrarono gli esploratori britannici furono infatti registrate dalle moderne stazioni meteorologiche dislocate in Antartide una sola volta nel corso delle rilevazioni condotte dagli anni Sessanta fino ai nostri giorni. Il polo geografico è però diverso dalla direzione che indicano le bussole. Il polo magnetico è definito come il punto nel quale le linee del campo magnetico terrestre sono perpendicolari al suolo. Tale punto subisce nel tempo rilevanti spostamenti che dipendono dalle continue mutazioni del campo magnetico del pianeta.

Michail Petrovic Lazarev che per primo avvistò l’Antartide

Il fenomeno prende il nome di “migrazione dei poli” ed è registrato sulle carte nautiche di cui si servono i naviganti. I primi uomini a raggiungere il Sud magnetico riuscirono nell’impresa il 16 gennaio del 1909. La spedizione era guidata dall’esploratore britannico Ernest Henry Shackleton e raggiunse il polo magnetico che allora era localizzato nella Terra della Regina Vittoria a 72° 15 Sud e 155° 16 Est. L’esistenza di un continente all’estremo del mondo è però radicata nella mente degli uomini fino dalla più lontana antichità. Già il filosofo greco Aristotele era convinto che la sua esistenza fosse una questione di equilibrio, di un equilibrio molto profondo che era responsabile della manifestazione del mondo. Sosteneva Aristotele che la natura fisica delle cose dovesse possedere un qualche tipo di potente simmetria e siccome via via che si procedeva verso Nord si assisteva al passaggio da un ambiente caratterizzato da colori intensi ad uno sempre più tenue unito ad un progressivo calo delle temperature, pensava che dovesse essere lo stesso proseguendo verso Sud. Proprio un contemporaneo di Aristotele, il greco Pitea, raggiunse il Circolo Polare Artico nel IV Secolo a.C. confermando, almeno per quanto riguarda il Nord, l’ipotesi del grande filosofo. Questo era dovuto al concetto di “orizzonte” nei confronti del quale, per definizione, l’osservatore si deve trovare al centro. Per questo motivo l’ambiente naturale nel quale l’uomo era nato e in cui si era evoluto doveva essere maggiormente presente alle sue percezioni e doveva essere più confortevole per condurre la propria vita, mentre allontanandosi da esso in qualsiasi direzione si doveva assistere ad un progressivo affievolirsi del mondo che doveva altresì divenire sempre più inospitale. Il concetto è tutt’oggi valido ed è contenuto nel termine “ecumene” che descrive la fascia di latitudini che sono abitate dall’uomo, nonché i limiti di quota che consentono una confortevole permanenza umana e si estende fino a quelle regioni dove i colori della vegetazione sono ancora marcatamente presenti, unitamente ad un’escursione termica tollerabile per la conduzione delle varie attività umane e di una vita sociale dignitosa. Ma la questione è molto più profonda e come aveva intuito Aristotele, coinvolge il modo stesso in cui noi percepiamo la realtà delle cose.

Più cerchiamo di spingere il nostro sguardo lontano dal nostro mondo ordinario più quel mondo ci apparrà strano, con un aspetto quasi familiare ma grottesco. Così avviene anche per i ricercatori che tentano di spingere lo sguardo umano sempre più lontano, verso l’infinitesimamente piccolo del mondo subatomico e verso l’immensamente grande dell’universo esteso. Il nostro modo di pensare e i postulati (proposizioni auto-evidenti alla coscienza umana) che reggono la nostra logica, se spinti oltre una certa soglia, mostrano infatti il loro limite e per proseguire il suo cammino la scienza deve adottare soluzioni completamente controintuitive, come avviene nella moderna fisica quantistica. In questo caso però il sapere rimane teorico e compete solo alla mente e parzialmente al centro emozionale ma non coinvolge quella pienezza che è possibile solo con la presenza fisica. Una cosa è infatti vedere un documentario su Parigi e un’altra cosa è recarsi fisicamente a Parigi.

Esiste quindi per l’uomo la via dell’esperienza di luoghi fuori dall’ordinario, che si trovano proprio ai limiti del mondo. Trovarsi fisicamente in luoghi di quel genere regala una visione straordinaria. Il potente effetto suggestivo di quella vista è ciò che gli alpinisti ricercano quando, per raggiungere le vette più estreme del pianeta, mettono la loro stessa vita sull’altro piatto della bilancia. Per avere quelle sensazioni che coinvolgono tutto il proprio essere il rischio diventa in tal modo accettabile, così, quando i colori piano piano svaniscono e la percezione del mondo diventa via via più candida ed evanescente, la mente si libera nel bianco e ascolta la presenza della propria coscienza. Quella è un’esperienza unica che coinvolge totalmente un essere umano, nella sua mente, nelle sue emozioni e nel suo corpo.

un’immagine della spedizione Beyond Epica Oldest Ice.

Pubblicato da Emanuele Dondolin

Direttore Responsabile ed Editoriale di Contg.News Iscritto all'Ordine dei Giornalisti Pubblici

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