l’autore Luca Roverselli-Redazione

Tra la fine del XV Secolo e gli inizi del XVI iniziò per l’Occidente un periodo di grandi esplorazioni che hanno permesso all’uomo di conoscere meglio il pianeta sul quale viveva. I lunghi e difficili viaggi intrapresi da alcuni avventurosi e talvolta temerari esploratori hanno reso evidenti le dimensioni enormi del globo terracqueo sul quale noi esseri umani avevamo la nostra dimora. Durante tutto il secolo che seguì un crescente numero di spedizioni fu poi in grado di mappare, con un’accuratezza sempre crescente, la forma delle terre emerse e di descrivere i popoli e le culture che su di esse vivevano. Quell’epoca è chiamata Rinascimento e durante quei secoli della nostra storia imparammo a conoscere il mondo. Dalle differenti culture e dalle diverse civiltà che gli esploratori incontrarono ai capi estremi del loro cammino fu importato ogni volta qualcosa che, successivamente, venne integrato in modo proficuo con le nostre conoscenze, favorendo un avanzamento delle scienze e delle arti. Dall’intreccio tra la cultura orientale e quella occidentale si generarono poi le scienze moderne che beneficiarono delle matematiche di origine indiana che conoscevano già dall’Antichità la notazione posizionale e il concetto di zero.

il 7 settembre 1776 il Turtle (Tartaruga) compì il primo attacco sottomarino della storia
Nascono quindi i primi strumenti per iniziare la prima fase dell’indagine sul mondo. Poi trascorrono i secoli e il passo successivo è alle porte. Siamo alla fine del XIX Secolo e l’età delle nuove esplorazioni è alle porte. Adesso è il momento di andare oltre e si devono cercare i limiti di quel mondo che si è appena imparato a conoscere e del quale si è da poco compresa l’immensa estensione. Quindi la domanda è: in quali luoghi esso manifesta una sorta di barriera che impedisce la sopravvivenza della nostra specie? Bisognava perciò scoprire quali fossero i confini che l’uomo non era in grado di valicare e poi bisognava esercitare un enorme sforzo per cercare di superarli. L’idea stessa di avventurarsi in quell’impresa portava con sé un’emozione indescrivibile. Il primo confine da sfidare era quello delle profondità imperscrutabili del mare. Si sapeva fino dalla metà dell’Ottocento, grazie agli studi di alcuni eminenti oceanografi che, via via che si discendeva negli abissi, scomparivano le varie frequenze che compongono la luce bianca proveniente dal Sole. Le lunghezze d’onda più lunghe, che corrispondono al colore rosso sono quelle che svaniscono prima e successivamente svaniscono dal campo tutte le altre, fino che tutto ci appare di una particolare tonalità del blue. Dopodiché, le tenebre assolute. Cosa nasconde quindi quel mondo che è così diverso da tutto ciò di cui abbiamo esperienza? Oltre a ciò, man mano che si scendeva nelle profondità di quel baratro, la pressione dell’acqua diventava più intensa, fino a raggiungere valori enormi in grado di far collassare qualsiasi struttura. La sua esplorazione rappresentava perciò una frontiera affascinante e misteriosa che nascondeva un mondo del tutto sconosciuto. I primi tentativi di realizzare un congegno in grado di portare un uomo al di sotto della superficie dell’acqua risalgono addirittura agli ultimi decenni del XVIII Secolo per opera di alcune marine militari, ma si trattava di dispositivi rudimentali che ricordavano più una botte per il vino che un sommergibile. Si trattava infatti di un ovoide in legno cerchiato in ferro: l’unico tipo di struttura a tenuta stagna allora disponibile, in grado di ospitare un passeggero. L’idea era quella di avvicinarsi senza essere visti alle navi nemiche per deporre esplosivi sulla loro carena. Per la realizzazione delle prime unità di esplorazione marina – batiscafi – si deve attendere il Novecento e la metallurgia è in grado di realizzare i primi scafi idonei allo scopo. Quella tecnologia è disponibile solo a partire dagli anni Trenta del secolo scorso.

il batiscafo Trieste che raggiunse l’abisso più profondo del pianeta
Ciò che quegli impavidi esploratori osservano nel corso delle loro immersioni si discosta subito in maniera notevole da quello che essi si aspettavano di vedere in base alle ipotesi che gli studiosi della vita marina avevano elaborato, senza possedere alcuna conoscenza diretta dell’ambiente sottomarino. Si pensava infatti che l’assenza di luce e di calore rendesse la vita, al di sotto di una certa quota, del tutto impossibile. Inevitabilmente, ancora una volta l’abitudine ad estrapolare dal noto era scesa in campo. Lo aveva scritto il noto oceanografo Edward Forbes a metà dell’Ottocento e quell’idea era ormai profondamente radicata nel modo di pensare diffuso tra gli studiosi. Quella maniera di ragionare aveva condotto gli scienziati a concludere perentoriamente che, siccome noi umani e le specie viventi presenti su terra ferma o in acque poco profonde necessitano di quei parametri per vivere e prosperare, allora dove tali condizioni sono assenti, non può esserci la vita. Quel pregiudizio fu il primo di tanti a cadere e cadde nel tempo di battito di ciglia.

l’oceanografo Edward Forbes
Creature dalle forme bizzarre che sembrano uscite da un romanzo di genere fantasy popolano infatti le profondità degli abissi marini a tutte le profondità. Quelle specie hanno sviluppato organi particolari che permettono la ricerca del cibo e per la difesa dai predatori, che vengono ingannati attraverso ramificazioni dotate di estremità bioluminescenti. Gli anni intorno alla metà del Novecento furono un periodo d’oro per gli sforzi profusi per raggiungere il fondo delle più profonde depressioni sottomarine. Le fosse oceaniche rappresentavano ancora un ambiente estremo sulle cui caratteristiche molte domande restavano aperte. Si ipotizzava addirittura che oltre una certa profondità la densità dell’acqua potesse raggiungere un valore tale da impedire l’ulteriore affondamento di qualsiasi corpo. Si immaginava che a quella quota si sarebbero osservati, in uno spettrale stato di sospensione, tutti gli oggetti che erano affondati nelle acque dell’oceano, sulla verticale di quell’abisso. Il progetto più ambizioso per l’esplorazione delle profondità marine è pronto alla fine degli anni Cinquanta del secolo scorso e punta a ragguingere il fondale della Fossa delle Marianne, grazie alla realizzazione del batiscafo Trieste che avrebbe così raggiunto il punto più basso della crosta terrestre, a quasi 11.000 metri sotto alla superficie dell’acqua. Il progetto era stato curato dal fisico ed esploratore svizzero Auguste Piccard che realizzò quel battello presso i Cantieri Riuniti di Trieste e di Castellammare di Stabia per conto della marina militare degli Stati Uniti d’America. Alla profondità alla quale doveva operare, ogni centimetro quadrato dello scafo era sottoposto alla pressione di 1.200 chilogrammi. Una morsa inimmaginabile alla quale la struttura doveva reggere per un tempo molto prolungato. La parte superiore dello scafo che aveva la funzione di galleggiante e perciò doveva essere per forza di cose abbastanza leggera, era interamente riempita di benzina.

trovato negli abissi al largo dell’Australia il pesce blob è una delle creature più strane del pianeta
Questa è infatti un liquido ed è quindi incomprimibile anche alle immense pressioni in gioco e inoltre ha la caratteristica di essere più leggera dell’acqua. Il modulo al di sotto del battello doveva ospitare i due uomini dell’equipaggio e perciò doveva essere cava, doveva avere una resistenza formidabile. La possente struttura, che fu realizzata in due semisfere temprate ad olio, presso le acciaierie di Terni, aveva uno spessore di 5 pollici – 12,7 centimetri – e la sfera montata, che aveva un diametro di soli 2,16 metri, pesava ben 13 tonnellate. I vetri erano realizzati in blocchi di quarzo troncoconici. A bordo c’erano Jacques Piccard, figlio del progettista del batiscafo e Don Walsh, oceanografo della U.S.Navy. La discesa richiese oltre cinque ore e questo dato rende l’idea di quanto quell’abisso fosse lontano dal mondo noto e rassicurante, illuminato dal Sole. La densità dell’acque, a 10.902 metri sotto alla superficie era praticamente uguale a quella che la caratterizza alle profondità minori e proprio a quella profondità i due uomini a bordo del Trieste poterono osservare alcune particolari specie di sogliole, alcune alghe unicellulari e una varietà di piccoli gamberetti. In quelle condizioni così lontane dall’ambiente nel quale siamo abituati a vivere e nel quale la nostra specie è nata e si è evoluta, la mente dell’uomo prova un senso di vertigine ed è in grado di trovare nuovi pensieri e di vedere nuove relazioni tra i tasselli che compongono la sua visione del mondo. Provare quella vertigine è ciò che ricercano i grandi alpinisti, come coloro che si spingono nelle estreme profondità degli oceani, ai limiti del praticabile e ai limiti del rischio. Esiste un altro abisso ignoto, il più grande e il più lontano che possiamo pensare di esplorare: lo spazio che si estende oltre i confini del nostro pianeta e lo visiteremo insieme nella seconda parte del nostro discorso sulle esplorazioni degli ambienti più inospitali e più diversi dal nostro noto. Appuntamento quindi a mercoledì 02 novembre.

uno schema della formazione di una Fossa oceanica