“Il Signore, il cui oracolo è a Delfi, non dice né nasconde, ma indica” – Eraclito di Efeso
Ogni progresso si fonda sempre sul lavoro e sulla consapevolezza che sono stati raggiunti durante il lungo cammino della conoscenza, lungo la via percorsa da tutta l’umanità alla ricerca della conoscenza. Ciò avviene al di la del semplice proseguimento della strada tracciata dai predecessori. Infatti, e così non fosse, sarebbe impossibile uscire dal fossato scavato di pregiudizi che influenzavano le precedenti generazioni di scienziati e di filosofi e un reale progresso risulterebbe a tutti gli effetti impossibile. In una situazione di questo genere la nostra logica continuerebbe a girare in tondo, allontanandosi un po’ dal vecchio modo di vedere le cose, per poi ritornare inesorabilmente al punto di partenza. Ma ciò non è avvenuto. L’idea che la nostra visione del mondo non corrisponda alla realtà profonda della sua struttura è presente nel pensiero umano da oltre due millenni.

La filosofia greca esprimeva in modo pieno questo concetto già dal VI Secolo a.C. In quel tempo Anassimandro, nato a Mileto, sulle coste dell’odierna Turchia nel 610 a.C., vide chiaramente che al di sotto di ciò che noi umani vediamo ci doveva essere uno statuto ontologico superiore di qualche genere. Egli allora chiamò quel grado di realtà: Leggi e da allora l’intuizione di quell’antico pensatore ha influenzato ogni futura direzione seguita dal pensiero nell’indagine sull’universo. Da allora tutti coloro che hanno cercato di capire come funziona il mondo hanno indagato quali fossero le leggi che determinavano quei fenomeni che venivano osservati. Pochi decenni dopo, un altro grande filosofo, Parmenide, si rende conto che l’opinione – doxa – che l’osservatore ha di un fenomeno è da intendersi come un modo improprio di interagire con la realtà. La coscienza dell’osservatore umano, interagendo con il mondo, lo tinge delle proprie caratteristiche intrinseche e il risultato è qualcosa che si discosta dalla natura che ha in sé quel fenomeno e l’intero universo. Allo stesso modo Platone, nel IV Secolo prima di Cristo, descrive la condizione umana nel “Mito della Caverna” all’interno del suo dialogo “La Repubblica” nel quale descrive l’uomo come colui che conosce solo le ombre che vengono proiettate sulla parete di roccia in fondo alla profonda grotta nella quale la sua coscienza è per natura relegata.

La realtà delle cose risiede invece in un mondo ontologicamente superiore nel quale esistono tutte le cose nella loro forma più pura e che il filosofo ateniese chiama Iperuranio. In quel mondo esistono le Idee (Eidos) di tutte le cose nella loro essenza più elevata. La trascendenza del mondo reale dalla condizione della coscienza umana è presente quindi lungo tutto il cammino del pensiero; è espressa in varie forme e partendo da varie aree della percezione e della conoscenza, ma è qualcosa che accompagna la ricerca filosofica fino dai tempi più antichi. Sembra essere una consapevolezza radicata naturalmente all’interno dell’intelletto umano. Tra il VI e il V Secolo a.C. è attivo a Efeso, in Anatolia, uno dei più importanti filosofi di ogni tempo, Eraclito. Egli sostiene che tutta la conoscenza umana avvenga attraverso l’intuizione per immagini. Gli uomini si rappresentano in qualche modo un mondo che è interamente una congettura fondata sulle immagini che di esso genera la coscienza. Questo importante passo per comprendere la struttura profonda e i limiti della natura umana è stato espresso dal grande filosofo di Efeso attraverso la descrizione di qualcosa che esiste da sempre e per sempre, al di fuori dello scorrere di quel tempo lineare del quale noi esseri umani abbiamo una così chiara e persistente esperienza intuitiva. Tale statuto ontologico superiore è contenuto nel “Logos” e la forma con la quale avviene questo processo è espressa da Eraclito con il verbo greco eidénai, che significa proprio intuire e da cui Platone derivò in seguito le Idee iperuraniche immutabili che costituiscono la reggenza di tutto ciò che esiste. Ma cos’è allora questo qualcosa che esiste da sempre e per sempre a cui il filosofo di Efeso raccomanda di fare riferimento come fondamento stesso del mondo? Deve trattarsi di qualcosa di non esteso spazialmente, altrimenti sarebbe visualizzabile nello spazio in una qualche forma riconoscibile dalla nostra intuizione. In questo caso sarebbe possibile infatti produrne un’immagine. La percepiremmo nitida o evanescente, diffusa in tutto lo spazio dell’universo, come percepiamo in cosmologia la radiazione cosmica di fondo, oppure nascosta in uno spazio infinitesimo, come rappresentiamo il regno delle particelle subatomiche, ma in qualche modo sarebbe visualizzabile. Di cosa si tratta allora? Si tratta proprio della coscienza.

Nei secoli di ricerca percorsa dal pensiero umano dopo la filosofia greca è stato via via sempre più chiaro che lo stato più fondamentale dell’esistenza, quella scintilla di luce su cui tutto si fonda è l’idea stessa di coscienza. Se morisse quella luce nulla potrebbe essere percepito e di fatto, nulla esisterebbe. Nel XVII Secolo Descartes diceva: “Cogito, ergo sum, sive existo” – penso, dunque sono, ossia esisto. In quella che è stata una delle più potenti idee della storia del pensiero, Descartes ritiene che ciò che può essere insignito della qualità dell’esistenza è il soggetto che si rende conto di pensare. L’esistenza reale appartiene all’unità di coscienza che si accorge di pensare. Ma nel caso della coscienza umana, essa è in grado di correlarsi direttamente almeno con una parte, con una piccola sezione della realtà che costituisce la struttura profonda dell’universo? La risposta è affermativa ed è arrivata agli inizi del XX Secolo per opera del celebre scienziato tedesco Albert Einstein.

Nella sua più grande opera, la “Teoria della Relatività Generale”, pubblicata nel 1916, il grande fisico descrive l’interazione gravitazionale. Con l’aiuto del matematico padovano Tullio Levi-Civita, esperto delle complesse matematiche che governano le geometrie non euclidee, Einstein descrisse la struttura della gravità rappresentandola come una distorsione dello spazio-tempo, attraverso quegli strumenti che nei formalismi della Relatività Generale prendono il nome di tensori metrici dello spazio-tempo. Lo scienziato tedesco sapeva bene che quella era una rappresentazione classica dell’universo a grande scala, così come lo stato di coscienza umano vede e conosce le cose, ma egli comprese che era necessario partire da dove la coscienza si trovava. Se siamo a Milano e vogliamo andare a Roma, non abbiamo scelta, dobbiamo partire da Milano.

Allo stesso modo, se siamo in quello stato di coscienza, non abbiamo scelta, dobbiamo partire da lì. Al suo tempo Isaac Newton, quando terminò i suoi studi sulla gravitazione universale, dichiarò con grande onestà che il suo sforzo intellettuale aveva chiarito alcuni meccanismi con i quali si esercita in natura l’attrazione tra le masse, ma su cosa sia in sé la gravità Newton dischiarò di non avere la minima idea. Einstein invece è in grado di dire cosa essa sia e dichiara che “la Gravità è lo Spazio-tempo”. La sensazione che noi abbiamo del campo gravitazionale è quindi una percezione effettiva e diretta di quell’unità quadridimensionale dello spazio-tempo. Ma attenzione, perché si tratta di qualcosa di eclatante.

Questa è infatti la prima percezione del mondo che non è mediata da una congettura intuitiva che la rappresenta in uno spazio esterno all’unità di coscienza che la intuisce. La sensazione del campo gravitazionale non ha luogo e non ha forma ma coinvolge nello stesso istante tutto il nostro essere. L’analisi rigorosa dell’interazione gravitazionale così concepita ha permesso infatti di liberare il pensiero scientifico da un’innumerevole quantità di pregiudizi intuitivi. Fino all’elettrodinamica relativistica, conosciuta popolarmente come relatività speciale o ristretta, che tratta i moti ad altissima velocità che avvengono nello spazio euclideo, la velocità massima che l’informazione può raggiungere è quella della luce, punto e basta. Infatti quella è la massima velocità raggiungibile “nello spazio” ma nella Relatività Generale, che descrive la gravità attraverso uno spazio-tempo plastico, estensibile e contraibile, lo spazio stesso può muoversi alla velocità che gli pare! Questo nuovo scenario rende possibili le traslazioni superluminali e rende la gravità l’interazione fondamentale più affascinante della natura. Gli scenari possibili si trovano ai confini dell’orizzonte del conoscibile e vedremo nella parte conclusiva della nostra rubrica quali incredibili risultati siano stati raggiunti nei più recenti anni della ricerca alla scoperta della natura ultima del mondo reale.
