“Ego cogito ergo sum, sive existo” (Io penso, dunque sono, ossia esisto”) – René Descartes, Discours de la Méthode
Gli storici concordano nel ritenere che la civiltà occidentale abbia riposato sotto le nevi del tempo per un inverno lungo quasi dieci secoli, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, avvenuta ufficialmente nell’anno 476 d.C. in una Roma che conosceva già un profondo declino che durava da oltre un secolo, e durato fino alla fine del XV Secolo. L’alba del rinascimento è infatti fatta coincidere con i viaggi di Cristoforo Colombo che si imbarcò con le sue caravelle alla scoperta del Nuovo Mondo. Ma è proprio vero che nel corso di quel lunghissimo millennio l’intelletto umano non abbia prodotto proprio nulla? Beninteso, dal punto di vista strettamente pratico, è vero che non si sono registrate invenzioni straordinarie e praticamente nullo è stato il progresso nel campo della tecnologia, ma in altri campi dell’attività intellettuale qualcosa di molto interessante è invece avvenuto. Proprio in quel tempo infatti l’uomo delle terre di Ponente si rende conto che tutto ciò che conosce del mondo e di se stesso è filtrato in ultima analisi proprio dalla sua mente cosciente. Uno dei Padri della Chiesa nonché importante filosofo, Sant’Agostino d’Ippona, attivo fino si primi decenni del V Secolo d.C. fu il primo a capire qualcosa di fondamentale, che in seguito, durante l’avventura del pensiero umano occidentale, avrebbe costituito la base stessa del modello di rappresentazione dell’universo. La profonda idea di S. Agostino era destinata a tingere del suo riflesso la struttura stessa del pensiero cosmologico dell’Occidente. Agostino comprende infatti che il tempo non può avere di per sé un’esistenza fisica oggettiva ma che esso è in qualche modo una proiezione generata dalla coscienza umana. Scrive il grande filosofo di Tagaste: “Il passato non esiste in quanto non è più, il futuro non esiste in quanto non è ancora e il presente, attimo dopo attimo, diventa quel passato inesistente e se così non fosse, sarebbe eternità”. Lo scorrere del tempo lineare, che accompagna l’intera nostra coscienza e tutte le nostre memorie lungo l’intera esperienza della vita è quindi qualcosa di effimero, qualcosa che non appartiene al mondo reale ma che è generato, in qualche modo che ci sfugge, all’interno della coscienza dell’uomo. Ma Agostino si spinge molto oltre. Dopo avere compreso che la nozione di tempo dipende interamente dallo stato di coscienza umano egli comprende che per questo motivo esso non può esistere da sempre ma deve per forza essere una creatura come le altre, così come lo sono tutte le cose che compongono l’universo del quale abbiamo esperienza. In quel momento è chiaro alla mente di Sant’Agostino che il tempo, come creatura, non può essere eterno e non può essere indipendente dal resto del mondo ma deve perciò avere avuto un inizio.

L’idea di un inizio del tempo coincide con l’idea di un inizio di tutto ciò che esiste e la nostra mente colloca quell’evento in un tempo antichissimo. Il tempo è poi collegato a filo doppio con il concetto intuitivo di spazio, che diviene il palcoscenico sul quale si dispiegano e vengono rappresentate dalla nostra coscienza le relazioni tra i fenomeni. In questo modo è resa possibile la comparsa sulla scena di spazio e tempo. Alla luce di tutto ciò, deve poter essere identificato un passato tanto remoto e tanto lontano nel quale sia lo spazio tridimensionale e sia il tempo lineare non potevano esistere. Il concetto è limpido e potente e percorre i secoli del pensiero umano fino al XX Secolo quando trova la sua formulazione attuale. Negli anni Venti del Novecento un fisico e presbitero belga, George Lemaitre, pubblicò un lavoro che recava il titolo: Ipotesi dell’Atomo Primigenio, nel quale interpreta il redshift (spostamento verso il rosso) che si osservava nelle linee spettrali relative alla luce proveniente dalle galassie lontane. Questo voleva dire che le galassie si allontanavano le une dalle altre, come puntini disegnati sulla superficie di un palloncino che si stava gonfiando. Le galassie quindi, in un tempo molto antico dovevano trovarsi molto più vicine tra loro, fino ad arrivare ad un momento in cui dovevano occupare tutte lo stesso punto infinitamente denso che era appunto l’Atomo Primigenio. L’analisi matematica di quel punto rivela ben presto che le sue caratteristiche estremamente esotiche gli impediscono di trovare posto all’interno delle leggi che governano la fisica. Se cerchiamo di fare i conti delle masse e delle energie in gioco ci accorgiamo che compaiono alcuni infiniti ingovernabili. Quando in fisica ci ritroviamo dei valori infinite vuol dire che il modello sul quale si fonda la nostra teoria sta gridando aiuto. I concetti che stanno alla base del ragionamento che ci ha portati fino a lì non sono più validi. L’idea stessa di spazio e di tempo trova una barriera invalicabile e prima di quel momento quelle due grandezze non potevano fisicamente esistere.

Spazio e tempo nascono quindi insieme a tutto il resto. Però questo era anche il pensiero che Sant’Agostino d’Ippona aveva espresso un millennio e mezzo fa. Ma allora cosa c’è di nuovo nella visione del mondo del XX Secolo? I formalismi sono diversi ma le idee sono sempre le stesse. Negli anni Novanta del secolo scorso, durante un congresso di fisici nella città di Napoli, John David Barrow, filosofo e ricercatore che ha indagato in profondità il rapporto tra realtà fisica e coscienza, disse: “Non riusciamo a pensare che alla stessa maledetta cosa”. Il nostro stato di coscienza ci condiziona ad un livello talmente fondamentale che ci rende immensamente improbo uscire dall’impasse. Lo sforzo consiste allora nella ricerca di cosa ci sia di effettivamente reale nello spettro delle nostre percezioni. Visto che il pensiero non riesce a discostarsi dalla stessa immagine che si produce del universo, più o meno riconoscibile in tutte le epoche percorse dalla storia, allora non resta altro che cercare un barlume di mondo reale. Siamo in grado di percepire qualcosa che sia effettivamente reale? A tale proposito c’è una buona notizia: conosciamo la risposta ed è scritta nell’epigrafe a questo articolo. La conosciamo dal XVII Secolo ed è opera del grande filosofo francese René Descartes.

Egli ci spiega che ad avere la qualità dell’esistenza è quell’entità cosciente che è consapevole di pensare. Mi accorgo che sto pensando e in quel momento sono certo di esistere come unità di coscienza, ma allora l’universo che vediamo dispiegarsi al di fuori di noi cos’è e che ruolo ha? Ebbene, esso è una rappresentazione che la nostra coscienza dà del mondo attraverso l’impianto sensoriale e cognitivo di cui disponiamo. Attenzione però, non si tratta solamente di uno spettro al quale i nostri organi ricettivi sono sensibili. Spesso ci viene ricordato che la nostra vista percepisce una certa gamma di lunghezze d’onda elettromagnetiche e che oltre a queste non è in grado di rilevare ciò che invece vedono alcuni animali, oppure, allo stesso modo, sappiamo che il nostro udito può registrare un’escursione limitata di frequenze, mentre i cani o i pipistrelli percepiscono suoni molto più acuti.

Adesso però non ci stiamo riferendo a questo tipo di limite quantitativo della percezione ma a qualcosa di molto più fondamentale. La forma stessa che attribuiamo al mondo fisico dipende infatti dalle caratteristiche del nostro stato di coscienza, come da esse dipende altresì il luogo nel quale avviene la sua rappresentazione, collocato di fronte alla coscienza che se lo rappresenta. L’unica cosa genuina in tutta questo è proprio la presenza della coscienza, mentre quello che vediamo è interamente costruito dalle interfacce di cui dispone la nostra specie. Un parallelo con l’informatica potrà chiarire ulteriormente il concetto. La registrazione reale di una fotografia su di un CD è costituita da incisioni discontinue impresse da un laser sul disco e se le osservassimo attraverso un microscopio non vedremmo quindi l’immagine di un paesaggio o di un ritratto, ma solo una serie di microincisioni irriconoscibili ed è solo attraverso l’intervento di un opportuno apparecchio trasduttore che noi possiamo vedere la familiare forma del soggetto della foto.

Esattamente la stessa cosa avviene per quanto riguarda l’universo. La sua forma reale profonda, paragonata alle incisioni sul disco, ci è assolutamente inconoscibile e noi, attraverso il nostro apparato sensoriale, costruiamo un’immagine del mondo che ci è familiare e alla quale siamo affezionati ma che non è quella del mondo reale. Oltre a ciò quell’immagine del mondo ce la rappresentiamo in un luogo esterno e indipendente dalla coscienza. Nel nostro prossimo appuntamento vedremo che nonostante ciò, un barlume di percezione dell’universo reale ce l’abbiamo ed è stata scoperta agli inizi del secolo scorso da Albert Einstein ed essa ci mostra un mondo che ha una forma completamente diversa da tutto quello che noi avremmo potuto intuire.